CERCA NEL BLOG

martedì 16 dicembre 2014

IT'S CHRISTMAS TIME PARTE 2: PARTIRE, NONNO, SEI TU? #5

DISCLAIMER:
È assolutamente vietato copiare il contenuto dei post incentrati sulle mie storie. Tuttavia potete copiare la sinossi e condividere sui vostri blog la data d'uscita dei capitoli successivi.

Per leggere i capitoli della prima parte, clicca qui.

Per leggere il quarto capitolo di It's christmas time parte 2, clicca qui.

"Ecco il quinto capitolo, siamo arrivati a metà, vi piace di più rispetto alla prima parte?. Ho appena finito di editare il capitolo 9. 
SE TI E' PIACIUTA QUESTA STORIA, CONDIVIDILA, PER FARLA CONOSCERE ANCHE AI TUOI AMICI.
Fatemi sapere se vi piace questa storia, se avete da criticare, fatelo pure, perché le critiche sono costruttive. Mi piacerebbe ricevere un vostro giudizio. Grazie per aver letto questa storia. Non perdete il SESTO CAPITOLO, IL 18 DICEMBRE ORE 21:00"

CAPITOLO 5: PARTIRE, NONNO, SEI TU?

Era passato il mese di novembre e finalmente era arrivato dicembre, il mese preferito di Claus, dei bambini e di tutti quei grandi che dentro di loro restano ancora bambini.
Il tempo era cambiato, diventando sempre più pungente giorno dopo giorno. Le forti piogge stavano investendo un po’ tutto il mondo e la neve copriva tutta la Lapponia.
Per le strade potevi trovare tutte quelle vetrine colorate e tutte quelle lucci appese per aria, che riuscivano a rendere il panorama ancora più mozzafiato.
Non era solo questa cosa a rendere il natale la festa più bella dell’anno, ma anche l’allegria che portava alle persone. La bellezza del natale è che, almeno per qualche giorno, tutte le persone si sarebbero dimenticate dei loro problemi, per sorridere insieme ai loro amici e parenti.
I bambini, soprattutto di sera, quando l’atmosfera si faceva più suggestiva, s’affacciavano alla finestra, per immaginare quel vecchietto, vestito di rosso, che guidava una slitta.
La cosa bella del natale è la neve, con la quale puoi fare i pupazzi di neve o giocare a pallate con i tuoi amici. 

Anche Claus, come tutte le altre persone faceva il calendario dell’avvento, contando i giorni che rimanevano a natale.
Ogni mattina, prima di fare colazione, apriva una casella del calendario, per mangiare un cioccolatino.
Dopo essersi rilassato con una bella tazza calda di caffè e latte, si metteva subito al lavoro. Aveva tanti aiutanti, ma non voleva scaricare le responsabilità sugli altri. Faceva di tutto, si potrebbe dire che era un po’ il jolly della situazione. Passava dalla lettura e catalogazione delle lettere, all’incartaggio dei regali e alla scrittura dell’indirizzo sui pacchi; invece, non aveva mai costruito i regali, perché in queste cose manuali, era davvero un disastro.

Quando aveva un attimo di pace, si metteva a sorseggiare la cioccolata calda davanti al camino, ripensava alle parole che gli aveva detto Henry e più ci pensava e più non capiva niente.
“Quale sarà la domanda che mi dovrà fare?”. Si chiese nel bel mezzo della notte, ma non seppe darsi nessuna risposta. Non era preoccupato, tutt’altro, era molto curioso.
Era davvero felice: era dicembre e tra pochi giorni avrebbe rincontrato Henry e la sua famiglia; il venticinque dicembre avrebbe fatto il giro del mondo.
La legna nel camino scoppiettava e quando la fiamma si spostava, cambiava anche l’illuminazione della stanza. Dallo stereo uscivano delle bellissime melodie natalizie, che riuscivano a rendere quel momento ancora più magico.
Si mise a ripensare ancora all’ultima conversazione che aveva avuto con Henry e non sopportava l’idea di vederlo così strano e triste; se si fosse trovato nella sua casa, l’avrebbe abbracciato e spinto a rivelargli quello che gli passava per la testa. Gli voleva davvero tanto bene, come l’amore che provava per i suoi figli.
A volte, quella distanza lo faceva sentire a  pezzi; se un giorno qualcuno gli avesse detto che si sarebbe affezionato così tanto a un ragazzino, non gli avrebbe creduto. Invece, lentamente, s’era affezionato in un modo veramente profondo a Henry.
In questo momento, gli mancava come l’aria che respirava. Chiuse gli occhi e pochi istanti dopo, gli apparve il volto sorridente di Henry che gli veniva incontro correndo.
Claus, sorrise a quel ricordo; ma quando riaprì gli occhi, quel pensiero svanì, come il fumo dei camini, quando si disperde nell’aria.
Se ne doveva fare una ragione della distanza che lo separava da Henry; sarebbe dovuto essere facile per lui, perché era grande, invece, non lo era per niente.
Prese il suo cellulare per rispondere a tutte le e-mail che aveva ricevuto. Si rasserenò e per il resto della serata, smise di pensare a Henry.

Sulac era davvero a pezzi, ma dire così era davvero poco. Passava le sue giornate in modo davvero faticoso: lavoro, lavoro e solo il lavoro. La cosa peggiore, era che il lavoro lo inseguiva fino a casa, senza lasciarlo libero un secondo.
A volte, quando alla sera tornava a casa, era veramente stanco, tanto che aveva fatto una scorta di cibi surgelati, quelli che bastavano dieci minuti per cuocerli.
Durate questi dieci minuti, si buttava sul divano e chiudeva gli occhi solo per due minuti e senza addormentarsi. Alla fine, quei due minuti, le più volte, diventavano mezz’ore e all’improvviso veniva svegliato da un odore di bruciato che invadeva tutta la casa. Si svegliava all’improvviso e di soprassalto e quando s’alzava per spegnere il fornello, nella padella non c’era rimasto più niente, se non tutto il cibo attaccato e bruciato; allora, era sempre costretto a prendere la pasta e cuocersela nel modo tradizionale
Molte volte, nel fine settimana, si metteva a lavorare per attuare le sue riforme, faceva tutti i conti per trovare nuove soluzioni e combattere così la crisi. Quando non gli tornavano i conti, s’arrabbiava con se stesso e poi, prendeva il foglio, l’appallottolava e lo lanciava alle sue spalle.
Durante il fine settimana, si trascurava moltissimo: la sua barba cresceva a dismisura e diventata ispida al tatto. La barba leggermente trascurata gli dava un aspetto più maturo, perché riusciva a valorizzare i lineamenti del suo volto.
A volte, era talmente stanco che non c’è la faceva nemmeno a fare la doccia; però, quando la faceva e stava sotto quel getto caldo, si sentiva rinascere.
Una cosa lo consolava, ancora pochi giorni e avrebbe lasciato la sua attività di politico, per raggiungere suo fratello e aiutarlo con il natale. Aveva bisogno di staccare la spina, non c’è la faceva più a lavorare con questo ritmo.
Nel mese di novembre era riuscito ad abbassare le tasse, fino a portarle al venticinque percento in meno rispetto all’inizio.
Non era stato facile, non tutti accettavano queste sue decisioni estreme, per questo, giorni prima di eseguire questa manovra, preparò dei grafici per far capire a chi non credeva nelle sue idee, che l’economia s’era ripresa.
Quella mattina si svegliò e dopo aver fatto colazione, si sentì rinato e forte come un leone; era pronto per la sua penultima uscita dell’anno.
Era stato un anno difficile, ma alla fine, alla fine di tutto, era riuscito nei suoi intenti; questa cosa lo rendeva fiero. Aveva cambiato il mondo, dando un po’ di felicità a tutte le persone; e anche se il mondo non era ancora perfetto, sapeva che prima o poi lo sarebbe diventato.
Con la macchina raggiunse il parlamento e attese che tutti i politici arrivassero. In genere, arrivava sempre prima di tutti, gli piaceva molto essere puntuale e lo rilassava molto, pensare e riflettere prima d’intraprendere un discorso importante.
Dopo una mezz’oretta, l’aula si riempì e tutti i politici presero il loro posto.
Quando furono tutti seduti, lui si schiarì la voce prima d’iniziare a parlare.

«La situazione economica è migliorata molto dopo le mie manovre. C’erano alcuni di voi che non credevano nelle mie idee; le credevate troppo drastiche e che non avrebbero portato a niente, se non a un peggioramento della situazione economica.
Non mi avete dato la fiducia, non le avete votate; ma grazie ad altri politici che credevano nelle mie idee, sono riuscito a portarle avanti e ne sono molto soddisfatto». Si fermò per qualche istante e guardò in faccia tutti politici. Alcuni di loro gli sorrisero, per incentivarlo a  continuare a parlare.
Dopo, lo presero alla sprovvista e qualcuno s’alzò in piedi e incominciò ad applaudirlo. Così, in un attimo, altri parlamentari, che credevano nel suo operato, s’alzarono in piedi e lo applaudirono a loro volta.
«Grazie!, allora io credo che dobbiamo abbassare ancora le tasse, per portarle a meno venticinque per cento del valore iniziale». Disse infine Sulac.
Si misero a votare e alla fine, grazie alla maggioranza, riuscì ad attuare questa sua riforma; anche se c’era sempre il solito gruppo di politici che era contrario a tutte le sue riforme.
Se ne andò nel tardo pomeriggio, era fiero di se, fiero per quello che era riuscito a fare.
Tra qualche giorno avrebbe tenuto un discorso di fine anno, che aveva deciso d’anticipare, perché voleva andare ad aiutare suo fratello.
Non appena tornò a casa, dopo essersi fatto un sonnellino e una doccia, si mise subito a scrivere il discorso.
Come sempre, scriveva a mano, con carta e penna; a volte cancellava interi discorsi e altre volte, quando non gli piaceva quello che aveva scritto, appallottolava il foglio e lo gettava alle sue spalle.

Finalmente arrivò il giorno in cui avrebbe fatto il suo discorso al mondo intero. Quella mattina, si svegliò non appena la sua sveglia incominciò a suonare. Tirò una botta sulla sveglia e la spense.
Fece colazione, poi una doccia e alla fine, fu pronto per partire.
Prese tutto il necessario per partire, si mise in macchina e partì. Non appena avviò il motore, accese la radio e la sintonizzò sulla sua stazione radio preferita.
Stava guidando e quando, all’improvviso sentì passare la sua canzone preferita, si mise a cantarla a squarcia gola; da fuori l’avrebbero preso per pazzo, ma a lui, non gli interessava.
In quell’istante, si sentiva forte, si sentiva il leone della situazione; nessuno avrebbe potuto scalfire la felicità che provava in quell’istante.
Era fiero di se, ma non se ne vantava; aveva fatto solo quello che credeva giusto.
Quando arrivò di fronte al parlamento, parcheggiò, prese tutte le sue cose e uscì dalla macchina. S’avvio fino all’entrata del parlamento e s’accorse che all’esterno, c’erano dei furgoni con grosse antenne satellitari, parcheggiati lì vicino. Aprì la porta ed entrò dentro. Gli uscieri lo salutarono e lui fece altrettanto.
Sparsi per il parlamento c’erano davvero tante persone, tutte impegnate affinché questo suo discorso andasse in onda in contemporanea anche in televisione. C’erano diverse telecamere che puntavano tutte nel posto in cui avrebbe dovuto parlare, l’avrebbero ripreso da più angolazioni. Per terra c’erano tanti i cavi che passavano in mezzo al corridoio e lungo le scale; Sulac doveva stare attento a dove metteva i piedi.
Quel giorno, non era obbligatorio che si presentassero i politici, ma chi voleva, avrebbe potuto assistere al suo discorso.
S’avviò fino alla sua stanza e quando arrivò, aprì la porta e chiuse tutto il mondo fuori. Si doveva concentrare per non sbagliare o farsi prendere dall’emozione. C’era un trucco per rilassarsi, immaginare che tutti quanti si trovassero in mutande. Prese il suo ipod, per ascoltare la sua musica preferita.
Il tempo passava, scandito dal ticchettio dell’orologio a muro.
Qualcuno bussò alla porta, ma Sulac non lo sentì. Allora, questo suo collaboratore entrò.
«Ci siamo, tra mezz’ora siamo in onda, ti devi preparare». Sulac si tolse le cuffie dalle orecchie e mise il suo ipod in un cassetto che si chiudeva con una chiave.
Prese il portatile e alcuni fogli e insieme a un suo collaboratore, s’avviò fino alla sala del parlamento.
Non appena entrò dentro quella stanza, notò che c’erano alcuni politici seduti che attendevano il suo discorso; c’è n’erano veramente tanti, più della metà dei posti a sedere erano occupati.
Attaccò il suo portatile al maxischermo che si trovava sopra di lui e dopo, accese il computer. Accanto al computer aveva dei fogli, con il discorso che avrebbe dovuto leggere.  Lui non amava farsi scrivere i discorsi dagli altri, perché le parole che pronunciava voleva che fossero le sue.
Il tempo stava passando troppo veloce.
«Tra due minuti in onda». Disse un addetto della televisione.
Sulac si era vestito veramente bene: indossava un vestito nero, con una camicia bianca e una cravatta celeste che riprendeva il colore dei suoi occhi e dei mocassini neri. Per l’occasione si era anche messo un po’ di trucco.
«Tre… due… uno… in onda». Gridò un addetto della televisione.

«Buon giorno, sono Sulac e sono a capo del governo mondiale.
Anche a dicembre scorso ero a capo del governo, ma essendo stato eletto da poco non ho potuto fare niente.
Ho dovuto lottare con un nemico più grosso di me, c’ho dovuto proprio fare a cazzotti, ma alla fine, in quest’anno sono riuscito un po’ ad annientarlo.
Molti prima di me ci hanno provato, ma hanno fallito miseramente. Per essere riuscito a sconfiggere la crisi, non mi sento un dio o un eroe, io sono come voi, una persona del popolo, a cui è stato incaricato di intraprendere questa bella e difficile missione.
Fare il politico non è un lavoro, ma una missione e un atto di rispetto nei confronti di tutte quelle persone che mi hanno votato.
Non è stato facile, ma alla fine le mie idee si sono rivelate vincenti.
Se sono riuscito a portare a termine queste mie idee, che hanno cambiato il mondo, non è stato solo grazie alle mie idee, ma anche a Henry.
Quel ragazzino è stato d’esempio per tutto il mondo, lui ha fatto capire a molte persone, che si può fare qualcosa, per aiutare il prossimo, senza, però ricevere niente in cambio.
Non so a voi, ma a me a insegnato davvero tanto, a insegnato una cosa che non ho mai trovato nei libri, quando studiavo per diventare un politico: mi ha insegnato a essere umile».
Smise di parlare, si fermò per qualche istante, mentre dai suoi occhi incominciarono a scendere delle lacrime.
«Scusatemi!». Esclamò e poi, con un fazzoletto s’asciugò le lacrime.
«Voglio molto bene a Henry, quasi come se fosse mio nipote.
Mi ha insegnato un sacco di cose, che io ho cercato di mettere in atto, per migliorare la situazione economica del mondo.
Sono riuscito ad abbassare le tasse del venticinque per cento. Questo è un grande risultato, ma non basta, il mio obbiettivo, con il tempo, è quello di arrivare al cinquanta per cento.
Abbassando le tasse voi, avete comprato di più e noi le tasse, per offrirvi i servizi ci sono arrivate comunque.
Vi faccio un esempio.
Andate al supermercato e comprate più cose e con il tempo, quel supermercato aumenterà il numero dei dipendenti. Comprando un oggetto, date più lavoro a chi lo produce e a chi crea le materie prime; è tutta una catena, che alla fine di tutto, migliora tutta l’economia.
Sono aumentati i posti di lavoro del venticinque per cento.
La crisi c’è sempre e ci aliterà ancora sul collo, ma prima o poi, la sconfiggerò del tutto.
Abbiamo pensato molto ai giovani, investendo dei soldi nell’istruzione e per fare in modo che ognuno di loro abbia la possibilità di sviluppare i loro sogni.
I bambini e i ragazzi sono la generazione del futuro e non possiamo tagliarli le ali, ma dobbiamo aiutarli a crescere.
Buone vacanze». Disse Sulac.
Appena finì di parlare, prese in mano i fogli del discorso e dopo, li gettò per aria, lanciandoli sopra la testa. Quei fogli incominciarono a volare e dopo, caddero a terra, sparpagliandosi su tutto il parlamento.
Mentre li guardava volare, si mise a ridere e dopo, gridò e incominciò a saltellare sul posto.
«Sì!». Gridò Sulac.
«Ci sono ancora le telecamere accese, ti stanno registrando». Gli disse un suo collaboratore.
«Sono felice che il discorso sia andato bene, ero teso e questo è il modo di sfogarmi. E non vedo l’ora di staccare la spina, sono stanco». Gli disse Sulac, per dargli una spiegazione.
«Divertiti da Claus». Gli disse.
«Certo».
Prese tutte le sue cose e dopo, lasciò il parlamento e tornò subito a casa per preparare la valigia. Alle nove avrebbe preso l’aereo, che l’avrebbe portato fino in Lapponia e tra qualche giorno avrebbe rivisto Henry e tutta la sua famiglia.
Quando, dopo molte ore raggiunse la Lapponia, prese l’autobus per poter raggiungere la casa di Claus. Quando si trovò di fronte alla casa di Claus, citofonò.
«Chi è?». Disse Claus.
«Tuo fratello». Gli rispose.
Sulac spinse il cancello, per entrare dentro la casa di suo fratello e dopo, oltrepassò la porta.
I due fratelli s’abbracciarono ancor prima d’iniziare a parlarsi. Quando si sciolsero dall’abbraccio si guardarono negli occhi.
«Sono venuto ad aiutarti e a rilassarmi dalla vita politica». Gli disse.
«Ti stanca molto?». Gli chiese Claus.
«Un po’, ma ne vale la pena». Gli rispose con un sorriso. Sotto gli occhi aveva delle occhiaie da far paura.
Si tolse la giacca, l’appese all’appendi abiti e posò a terra la valigia.
«Ciao zio». Gli dissero in coro i suoi nipoti, mentre gli venivano incontro per abbracciarlo.
«È stato forte il tuo discorso, l’abbiamo visto tutti». Gli disse Clary.
«Soprattutto la parte in cui parlavi di Henry». Disse dopo Claus.
Così, dopo un buon pranzo, Sulac si mise subito all’opera per aiutare Claus.
Andò su facebook e creò un post per tutti i suoi fans, chiedendogli come l’anno scorso di inviargli gli oggetti che non usavano più. Dopo, condivise nuovamente il video che aveva fatto l’anno scorso insieme ai ragazzi.
Dopo una decina di minuti, cominciarono ad arrivare le prime risposte e addirittura, lo mandarono in onda al telegiornale.

Dopo quelle rivelazioni, William, Daniel, Henry e Neal, lasciarono la soffitta e s’incamminarono in punta di piedi, fino alle loro camere.
Erano davvero stanchi, la giornata era stata davvero pesante per le lunghe passeggiate in montagna; ma sia William, Daniel e Neal non riuscirono a chiudere occhio; ripensavano in continuazione a quello che gli aveva raccontato Henry e al fatto che Claus potesse essere il loro nonno.
Henry era stato l’unico che quella notte riuscì a dormire, perché si era messo l’animo in pace e forse, in parte, era riuscito ad accettare quella verità che all’inizio l’aveva sconvolto.
Non ne aveva mai parlato a nessuno, ma da quando erano tornati dalla vacanza estiva, aveva una sensazione strana su Claus e ogni volta che ci parlava tramite il computer, s’intensificava sempre di più.
Non sapeva il motivo o se era una sensazione positiva o negativa, ma che quando l’avvertiva, sentiva dei brividi che gli percorrevano in tutte le ossa. Gli facevano sentire tanto freddo, fin dentro le ossa.
Voleva capire e per questo, durante la notte passava delle ore sveglio, stando supino, con le braccia incrociate e le mani sotto la testa e con gli occhi aperti guardava il buio intenso della notte, disturbato dai led degli apparecchi elettronici.
Se avesse saputo il motivo di questa sua strana sensazione, l’avrebbe potuto aiutare, ma in questo modo, era tutto inutile.
S’arrabbiava con se stesso, la sua sensazione era inutile, come una bomba che non sai quando esplode.
Per lo meno, l’ultima volta aveva che sognato Claus c’era un motivo: non riusciva a comprare tutti i regali a causa della crisi; ma questa volta, non lo sognò nemmeno una volta.
Passavano i giorni e dentro di se, quasi come per magia, sperava di trovare una soluzione a questo suo dilemma; ma non riuscì a venirne a capo.

Il mattino seguente, Henry aveva fatto un bel sogno, in cui s’incontrava con Claus e s’abbracciavano stretti in un abbraccio pieno d’amore. Era un bel sogno e non vedeva l’ora che diventasse realtà; questo sogno, non gli aveva fornito una risposta alla sua strana sensazione.
In questo momento, era davvero arrabbiato con se stesso.
Si svegliò al suono insistente della sveglia, facendo così terminare, in modo veramente brusco il suo sogno su Claus. S’arrabbiò ancora di più con se stesso; oltre ad aver interrotto bruscamente il sogno non si ricordava nemmeno che cosa aveva sognato
Si mise a sedere sul letto, si tolse il pigiama e si vestì per scendere in cucina.
Scese fino in cucina e trovò tutti quanti a tavola, erano le sette in punto. Henry, prese il latte dl frigo, lo versò in un tazza e aggiunse una manciata di cereali.
Incominciò così a mangiare.
«Ho delle strane sensazioni su Claus». Disse Henry, all’improvviso, lasciando tutti di stucco. Lo guardarono tutti quanti in un modo stralunato e chi si stava portando il cucchiaio alla bocca, lo lasciò a metà.
Henry, in quell’ istante si sentiva osservato e guardò tutti i suoi familiari, uno per uno.
«In che senso?». Gli chiese William.
«Come l’ultima volta?». Gli chiese Daniel.
Henry fece di no con la testa.
«No, l’ho sognato, ma ho lasciato a metà il sogno e non melo ricordo nemmeno. Non so se sia una sensazione positiva o negativa. Questa cosa mi dispiace molto, perché gli voglio molto bene, lo voglio aiutare». Disse Henry, amareggiato di se stesso.
Dopo, guardò suo padre, avrebbe voluto dirgli tutto quello che aveva scoperto.
“Papà, Claus è tuo padre, cioè mio nonno”. Come faceva a dirgli una cosa del genere, non aveva il coraggio. A volt, bisogna trovare il momento giusto, per dire delle notizie che potrebbero stravolgere le vite delle persone.
Suo padre si sentiva osservato intensamente da Henry.
«Che c’è?». Gli chiese suo padre.
«Niente». Gli mentì Henry e dopo, gli sorrise.
«Ti crediamo». Gli dissero insieme i suoi genitori e dopo, per questa cosa, si misero a sorridere.
«Ti credo quando dici che hai delle strane sensazioni su Claus». Gli disse sua madre.
«E scusami se l’hanno scorso non ti abbiamo creduto». Disse suo padre.
Henry li guardò e rimase in silenzio per un attimo.
«Davvero mi credete?». Henry gli chiese sbalordito.
«Certo e credo che William debba prenotare i primi biglietti disponibili e voi sei dovete partire per la Lapponia». Gli disse suo padre.
Henry lo guardò, era felice dell’idea di partire. C’era qualcosa che non gli tornava, perché aveva detto “voi sei”.
«Perché voi sei?, voi non venite in Lapponia?». Chiese William a suo padre.
«Portate con voi anche le vostre amiche, June e  Rachel. Noi partiremo qualche giorno dopo di voi, per via del  lavoro». Gli spiegò suo padre e dopo, fece l’occhiolino a Daniel, William e Henry.

William non se lo fece ripetere due volte, prese la carta di credito di suo padre, andò subito in camera sua, accese il computer e con un sorriso sulle labbra, andò sul sito per prenotare i biglietti aerei.
Henry e Daniel, dopo aver saputo la data di partenza chiamarono subito le loro amiche per invitarle a passare tutte le feste in Lapponia.
«Ciao, June sono Henry, ti va di venire in Lapponia con me a conoscere Claus, Sulac e la Befana?». Le chiese.
«Dimmi che non è uno scherzo, che bello, certo che vengo». Le disse e dopo, incominciò a strillare dalla felicità.
Dopo, Henry lasciò il telefono a Daniel, che era molto più timido con le ragazze. Daniel era più grande di Henry e il loro modo di vedere l’amore e le ragazze, era completamente diverso.
«Ciao, sono Daniel, ti va di venire con me in Lapponia». Le chiese, mentre le sue guancie si tingevano di rosso e s’attorcigliava in modo nervoso il filo del telefono sul dito.
«Certo, dimmi quando». Gli rispose.
Tra due giorni sarebbero partiti, così iniziarono fin da subito a prepararsi le valigie. Ormai tutti quanti sapevano farsi le valigie, anche il piccolino di casa, Neal, aveva imparato a farsele da solo.
Portarono due valigie: in una ci avevavo messo i vestiti, tutte le altre cose non fragili e di poco valore e nell’altra, nel bagaglio a mano ci stavano tutte le cose fragili.
Così, due giorni dopo, suo padre li accompagnò di notte all’aeroporto, dove, li attendevano già da qualche minuto, June e Rachel.
Abbracciarono, salutarono il loro padre e dopo, entrarono nell’aeroporto, per fare il check-in e partire così verso la Lapponia.
Salirono in aero, si misero a sedere nei posti che gli avevano assegnato e attesero che partisse in silenzio.
La partenza faceva sempre paura a Henry, infatti prendeva la mano del fratello che gli stava accanto.
Il panorama visto dall’alto era sempre emozionante e così bello da mozzarti il fiato; lentamente, passarono da una terra colorata di verde e marrone, a un’altra, la Lapponia in cui tutto quanto era colorato di bianco, come se qualcuno c’avesse buttato un sacco di panna e zucchero a velo.
Henry s’addormentò durante il volo, ma non sognò niente; ma più s’avvicinava alla Lapponia e più la sua strana sensazione diventava sempre più intensa.
Ancora non sapeva se era una sensazione positiva o negativa; di una cosa era sicuro, avrebbe tenuto d’occhio Claus, non avrebbe mai voluto che gli capitasse qualcosa di veramente brutto. Si dimenticava il fatto che da ora in poi, l’avrebbe dovuto chiamare “nonno Claus”.
 «Hai sognato qualcosa?». Gli chiese William riferendosi alle sue strane sensazioni.
«No». Rispose Henry amareggiato.
Così, finalmente l’aereo atterrò dopo molte ore di viaggio. Presero il loro bagaglio a mano, scesero dall’aereo, andarono a recuperare le loro valigie e poi, uscirono dall’aeroporto.
Non era la prima volta che Henry vedeva la Lapponia, ma ogni volta provava dentro di se un emozione pazzesca, come se la vedesse per la prima volta.
Sentire,  l’odore delle neve mescolato a quello della natura, era qualcosa di pazzesco.
A piedi, s’avviarono fino alla stazione degli autobus; il clima era davvero pungente. Dal loro bagaglio a mano, presero i guanti, la sciarpa e il cappello e li indossarono per stare più al caldo.
Se ne stavano in fila indiana, perché quella strada era trafficata. C’era chi come Henry ascoltava la musica per rilassarsi.
«Clary è già arrivata». Disse William sorridente.
«Bene, allora vuol dire che c’è anche Gabriel». Disse Daniel.
«Chi è Gabriel?». Chiese Rachel.
«Il fratello della mia ragazza Clary, amico di Daniel, perché tutti e due sono davvero in sintonia sui loro interessi». Le rispose William.
«Puoi dirlo forte». Disse Daniel sorridendo.
Quando arrivarono alla stazione degli autobus, William fece i biglietti per tutti e nel frattempo, ne approfittarono per fare uno spuntino.
Quando finirono di mangiare, si misero a sedere sulle panchine che si trovavano fuori.
Dopo una decina di minuti, arrivò l’autobus che li avrebbe portati fino alla casa di Claus.
Salirono a bordo e dopo, si misero a sedere. Henry era pensieroso e se ne stava in silenzio; tutti gli altri parlavano e scherzavano e lui se ne stava lì a guardare il paesaggio, che lentamente scorreva dal finestrino.
«Che c’è?». Gli chiese Daniel.
Henry alzò la testa, fino a guardare il fratello in faccia e rimase in silenzio per qualche secondo.
«Come faccio a chiedergli se è mio nonno?, non gli posso mica dire “scusa, ma sei mio nonno?,mica hai avuto un figlio quando avevi meno di vent’anni?”. Devo trovare il modo giusto ed educato per chiederglielo, però, in ogni modo glielo chiederò, sconvolgerò la sua vita, quella di Clary e Gabriel, di Sulac e tutta la nostra famiglia». Disse Henry.
«Fasciati meno la testa. Devono sapere la verità, anzi tutti quelli che hai citato devono e hanno il diritto di sapere la verità». Disse Daniel.
Quando arrivarono vicino alla casa di Claus, scesero dall’autobus e in fila indiana, s’incamminarono fino a raggiungere la meta.
Henry si ricordava ancora come l’anno scorso, era stato divertente trovare la strada per arrivare alla casa di Claus, con la citazione “Seconda stella a destra e dritta fino al mattino”.
Finalmente arrivarono a casa di Claus, quando era qui, aveva sempre avuto la sensazione di trovarsi a casa e ora sapeva il motivo; Claus era suo nonno.
Henry suonò al citofono di Claus e dopo qualche secondo, gli rispose lui.
«Sono Henry». Gli disse.
Il Cancello s’aprì e tutti quanti entrarono dentro. Claus, Sulac, Gabriel e Clary s’affacciarono alla porta.
Non appena Clary vide William, gli corse in contro e gli saltò in collo, mettendogli le mani intorno al collo e anche lui la strinse a se, mettendole le braccia intorno alla sua vita.
«Mi sei mancato da morire». Gli disse e dopo, lo baciò con trasporto.
«Anche a me». Le rispose.
Tutti quanti entrarono dentro casa, posarono le valigie e si tolsero le giacche. Tutti quanti s’abbracciarono e si baciarono per salutarsi, ma quando lo fecero Henry e Claus, fu qualcosa di molto intenso.
«Loro chi sono?». Chiese Claus quando vide le due ragazze.
«Lei è June l’amica di Henry e lei è Rachel l’amica di Daniel. Sono amiche molto, molto speciali». Disse William e dopo, gli strizzò gli occhi.
«Non ti dispiace se l’abbiamo portate con noi?». Gli chiese Henry.
«No, tanto ho molte camere, lo spazio non ci manca». Gli rispose e dopo, gli sorrise.
«Come va il processo?». Gli chiese Sulac.
«Siamo sempre allo stesso punto, non sappiamo se quelli che stiamo accusando sono i veri rapitori o se sono solo dei mandanti». Disse William.
Dopo Claus guardò Henry e gli venne in mente che lui gli voleva fare una domanda.
«Cosa mi volevi chiedere?». Gli chiese Claus.
«Sei…, sei…». Provò a dirglielo, ma non riuscì a continuare.
«Sono cosa?». Gli chiese incuriosito.
William si fece avanti e stava per fargli quella domanda.
«No, William, devo essere io a fargli quella domanda». Gli disse Henry, allora lui si fece da parte.
Henry chiuse gli occhi per calmarsi e trovare la forza dentro di se per trovare quelle parole.
«Sei mio nonno?, sei il padre di mio padre?». Gli chiese così velocemente che si mangiò qualche parola.
«Credo di sì, l’ho sempre sospettato, prima quando ho incontrato te e poi, quando ho incontrato tuo padre. Per esserne certi dovremmo fare un test del DNA». Gli disse Claus, che anche se sospettava che il padre di Henry fosse suo figlio aveva paura e allo stesso tempo non vedeva l’ora di sapere la verità
«La sapevo questa cosa, per questo ho preso un capello dalla spazzola che usa mio padre». Prese il suo zaino, lo aprì e tirò fuori una bustina trasparente con dentro qualche capello.
Sulac prese una bustina trasparente, s’avvicinò a Claus per strapparli un capello.
«Ahi!». Gridò Claus.
«Scusa fratello, ma dobbiamo scoprire la verità».

Nessun commento:

Posta un commento